giovedì 19 maggio 2016

L'eleganza parte dalla testa

"L'eleganza parte dalla testa". 

Questa è una frase di M.me Paulette, e se vi state chiedendo CHI E' COSTEI? vi accontento subito.

Madame Paulette, ovvero Pauline Adam de la Bruyère, nasce in Francia nel 1900 e all'età di  20 anni diventa venditrice all’interno dell’atelier Brunet e Verlaine, dove riceve i clienti e nel contempo impara a far cappelli.
Grazie alla sua intraprendenza riesce ad inserirsi negli ambienti mondani della facoltosa Parigi  e si lascia trascinare dal fermento degli anni ’20. Nel 1921 apre il suo primo “salone del cappello”, il secondo salone aprirà nel 1929 (anno dal quale comincia a farsi chiamare Paulette) e nonostante la fortissima concorrenza di quegli anni da parte di designer come Lucienne Rabaté nota per le forme strutturate, Agnès che si ispira all’arte contemporanea ed Elsa Schiaparelli per le sue forme bizzarre, le sue creazioni originali e uniche sono sempre tra le più richieste. 
Ciò che M.me Paulette produce è realizzato tutto a mano e su misura: celebri i bibis-jardin, i piccoli cappelli “fioriti” da portare sul davanti



le calottine di piume, le pagliette decorate e le velette che a suo dire “ravvivano lo sguardo di una donna, aumentando il mistero”.




Nel periodo della Seconda guerra mondiale,dopo aver abbandonato i bibis, ormai giudicati demodé,  inventò il turban-bicyclette, Paulette sostiene di aver avuto quest’idea osservando le donne mentre girava per Parigi in bicicletta: un copricapo piccolo e pratico come il turbante era perfetto in un momento come quello del periodo bellico, in cui lo shampoo era un vero lusso e le donne non potevano recarsi dal parrucchiere con la solita frequenza.




 Un capo così pratico era destinato ad avere un enorme successo e da lì iniziò la sua scalata nel mondo dei cappelli negli anni ’60. La moglie del presidente Ford ordinò dozzine di cappelli alla modista.  Coco Chanel nel 1971 volle che fosse solo Paulette a realizzare le pagliette di tessuto per la sua collezione. A ottant’anni suonati rifiutò di chiudere i battenti, Karl Lagerfeld la volle per la sua prima collezione Haute Couture firmata Chanel nel 1983.   Il titolo di questo post  L'eleganza passa dalla testa è una frase che era solita dire “L’eleganza parte dalla testa. Del resto a cena, di una donna si vedono solo due cose: il cappello e i gioielli” .

Per chi fosse interessato c'è un libro, Hats by Madame Paulette, scritto da sua nuora, che ripercorre la sua ascesa verso il successo, partendo dalla borghesia parigina alle vette dell’olimpo della moda. 

E questo è il mio omaggio a M.me Paulette

Spilla Carla 1959, con cappello in seta e veletta, guarnito con strass e piccola piuma
Collezione Chapeau! by ReFuse



giovedì 3 marzo 2016

Il pillbox (e il tailleur) di Jackie

Di Jackie ce n'è una sola: Jacqueline Bouvier Kennedy la first lady diventata un'icona di stile destinata a durare nel tempo. Uno stile che all'epoca (siamo negli anni '60) evocava l'immagine di una donna di classe, indipendente e moderna: famosi i suoi tailleur, con abitino smanicato  e giacca con scollo  stondato e i cappottini con i bottoni foderati dello stesso tessuto.


Amava i colori e gli accessori, ci teneva sempre a provare e riprovare gli abiti e a dare indicazioni su tagli, lunghezze e imbottiture e se non veniva accontentata si metteva lei a disegnare o correggere gli schizzi degli stilisti: era una sua prerogativa dettare le regole per la realizzazione dei propri abiti. 
Si spiega così il suo essere sempre impeccabile, equilibrata e mai fuori posto, dal cappellino alla scarpa, passando per cappotto e filo di perle, quasi sempre tutti in pendant. Look che hanno fatto la storia e che rimangono immortali e d’ispirazione anche ai giorni nostri.
A rimanere immortali però, sono soprattutto i cappellini tondeggianti, i pillbox, che hanno fatto la storia degli accessori e sono diventati parti fondamentali dei manuali di costume.



Da dove arriva il pillbox? 

E' un piccolo cappello femminile il cui nome deriva da una ...scatola portapillole!

Questo tipo di cappello era molto popolare nel XVII secolo, tra le donne europee. Poi, questa forma tonda, piccola e rigida, passò di moda per quasi tre secoli. Tornò trionfalmente nel 1960, anno in cui Jacqueline cominciò a indossarlo abbinandolo ai suoi famosi tailleur: indossava un pillbox bianco quando JF Kennedy venne nominato Presidente e anche quando venne assassinato a Dallas. 


Le foto del suo tailleur rosa abbinato al pillbox dello stesso colore hanno fatto il giro del mondo e resteranno nella storia. Quando la popolarità di questo cappello era al suo apice, le acconciature femminili che andavano per la maggiore erano quelle gonfie, cotonate; il cappello veniva strategicamente posizionato sulla parte superiore della testa, in modo da non schiacciare la pettinatura. 

    La mia spilla

                                              Adriana 1964








Adriana è una spilla ispirata ai pillbox di Jackie, il cappellino è realizzato in lino giallo con nastrino  e fiocchetto marrone. Da notare la perla al lobo dell'orecchio.



Bob Dylan


Se vi state chiedendo cosa c'entra Bob Dylan con questo cappello vi accontento subito. 
In quegli anni fu tale la popolarità del pillbox che persino Bob Dylan si scomodò per immortalarlo in una canzone, Leopard-Skin Pill-Box Hat contenuta nel suo doppio album del 1966 Blonde on Blonde. 
Il testo del brano prende in giro le ragazze altolocate viziate e schiave della moda. Il copricapo è oggetto della scherno di Dylan, letteralmente "il cappello a bustina leopardato" e rappresenta la futilità delle mode (e di riflesso l'assurdità del materialismo in generale). Dylan, calcando la mano, incrocia la "bustina" con la pelle di leopardo, facendo diventare l'accessorio ancora più volgare e di cattivo gusto.
Ma forse aveva qualche suo personale motivo che lo rendeva acido verso questo modello di cappello....(magari, e senza il magari, una modella).


Vi lascio con un paio di strofe del testo della canzone
                                     

Bè, vedo che hai il tuo cappello a forma di scatola di pillole
in pelle di leopardo nuovo di zecca
Sì, vedo che hai il tuo cappello a forma di scatola di pillole
in pelle di leopardo nuovo di zecca
Come si sente la tua testa sotto una cosa simile
sotto il tuo cappello a forma di scatola di pillole
in pelle di leopardo nuovo di zecca



Bè, sembri così graziosa,
posso saltarci su qualche volta?
Sì, voglio proprio vedere
sè è di quelli di alto costo
Sai che ti sta bilanciato in testa
proprio come un materasso
sta in equilibrio su una bottiglia di vino
il tuo cappello a forma di scatola di pillole
in pelle di leopardo nuovo di zecca


venerdì 19 febbraio 2016

Lunga vita al cappello!

                                                             Perché il cappello? 
Perché la vita di questo accessorio è lunga, almeno quanto quella dell'uomo (ma soprattutto della donna, dico io!) che lo ha ospitato sulla propria testa. Le sue origini sono lontane nel tempo, partono dall'antico egitto , passano per la Grecia e per l'Asia fino ad approdare in Europa: qui si diffonderà la moda del cappello elegante, che partendo da Francia e Inghilterra arriverà alla grande produzione italiana del Novecento. 
Perché il cappello è presente in tutte le civiltá, è un simbolo dalle molte valenze: culturali, sociali, individuali, influenza i codici comunicativi, rappresenta visioni del mondo, è metafora della creativitá che si sprigiona dalla sede del pensiero sulla quale sta elegantemente appoggiato. 


Perchè il cappello cela il capo, ma sotto di lui anche il volto muta il proprio aspetto in un gioco di ammiccamento, seduzione, provocazione che lo rende uno strumento di magia. La forma del cappello segue la forma della testa ma al tempo stesso la trascende e parla una lingua propria capace di amplificare le relazioni comunicative. 
Mettersi il cappello, togliersi il cappello, cambiare cappello: gesti che si compiono sul palcoscenico quotidiano per assumere ruoli diversi, per cambiare la propria immagine e forse le proprie idee, uno spettacolo di complicitá in cui uomo e cappello sono entrambi primi attori. 

  Vi è forse venuto il sospetto 
che mi piacciano i cappelli?

Ebbene è proprio così!

E allora vi presento la prima di una lunga serie di spille con cappello, volti femminili che cambiano con il passare dei decenni e delle mode: una collezione che ho costruito (disegnato, tagliato, dipinto) attraverso anni di ricerche sulla moda, sui figurini, sui cartamodelli dei cappelli femminili del '900, secolo che ha dato il meglio della produzione per questo accessorio così particolare e, per tanti anni, così amato.

Lei è Doretta  
anno di produzione del cappello 1940


Doretta indossa un turbante in raso di seta bluette, arricchito alla sommità da una piccola pietra in cristallo e un pennacchio sempre in seta. Ogni spilla reca un nome di donna legato al periodo e l'anno di produzione del cappello.




Gli anni '40: anni non felici, anni difficili e travagliati che hanno segnato la storia d'Italia: In quegli anni il semplice turbante veniva spesso indossato per coprire capigliature che difficilmente si riuscivano a tenere in ordine, visti i tempi, la scarsità di mezzi e gli eventi che si susseguivano.





  Breve storia del Turbante, un copricapo umile ma di grande fascino




Il turbante ha origini orientali, è un accessorio che porta con sé significati e storia. Dalle lontane epoche persiane, attraversa religioni, continenti, guerre, arte, musica, moda e arriva ai nostri giorni. Nel lontano Oriente, il turbante era un accessorio di rappresentanza prettamente maschile: indicava la casta e la città di provenienza di un uomo in India, ma in Europa il turbante era indossato solo dalle donne, veniva considerato un capo di alta moda e di solito adornato con gioielli.


                   E infine l'ultimo perché...

Perchè  è un desiderio: che il cappello torni ad essere strumento di fascino e di eleganza, che nel cappello si ritrovi un segno di individualitá , di personalitá e, perché no, che possa di nuovo essere tolto dal capo per rendere omaggio ad una signora che sappia apprezzare questo gesto di antica galanteria.

domenica 7 febbraio 2016

La sindrome del cappellaio

Riprendo a scrivere qui dopo tanto tempo per introdurre un argomento che mi sta a cuore, quello del cappello. 
                                           Quasi un mondo a parte, si potrebbe dire.....

Dunque comincio col raccontarvi qualche curiosità storica sul cappello, curiosità che magari non tutti conoscono.

                                     Il cappellaio matto

Il personaggio del cappellaio matto che esce dalle pagine del libro Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carrol nasce da una realtà storica ben conosciuta alla metà del 1750. La moda di allora prevedeva cappelli a cilindro in feltro, materiale che veniva trattato e colorato attraverso l'uso di composti tossici tra cui mercurio, malachite, antimonio e arsenico; l'uso continuativo di queste sostanze causava dilatazione delle pupille che assumevano una colorazione sul verde e cambi di umore e di personalità piuttosto repentini.



Il mercurio in particolare era un elemento indispensabile nella composizione del feltro: le pelli animali venivano immerse in una soluzione a base di nitrato di mercurio che serviva a separare il pelo dalla pelle. Questo passaggio veniva chiamato carotatura. Il passaggio successivo era l'inceratura e la ricopertura con seta o pelle, accorgimento che proteggeva il cappello nel tempo e impediva a chi lo indossava di venire in contatto con le sostanze tossiche. I cappellai di allora avevano però l'abitudine di provarli sulla loro testa per sagomarli e i loro capelli,con l'andare del tempo, finivano per assumere una colorazione arancione fosforescente, arancio carota appunto, riprodotta alla perfezione da Tim Burton nel suo Alice in Wonderland, perfettamente interpretato da Johnny Deep.

Come vedete l'immagine del Cappellaio matto non è certo un personaggio di fantasia, ma rispecchia la realtà delle malattie da lavoro dell'epoca: le pupille dilatate, la colorazione verde dell'iride, i capelli color carota e i repentini sbalzi d'umore erano tutti segni di malattia.

L'assorbimento costante di quantità di mercurio causava un deperimento dell'apparato neurologico, che si manifestava con sindrome bipolare, ben conosciuta a quel tempo come Sindrome del Cappellaio matto  (mad hatter disease) e oggi conosciuta come malattia causata da avvelenamento da mercurio.



I discorsi sconnessi del cappellaio matto di Alice non erano quindi frutto della fantasia di Lewis Carrol, ma rispecchiavano una realtà ben conosciuta nella Londra del XVIII secolo, dove i cappellai venivano considerati persone eccentriche e instabili, tenute ai margini della società perchè potenzialmente pericolosi....e i loro discorsi non dovevano essere molto dissimili da quelli letti nel libro di Carrol o ascoltati nel film di Tim Burton.



sabato 18 aprile 2015

Ridefinire cose

                                             
Questa volta vi parlo di  


Ridefinire cose
a cura di Sonia Patrizia Catena

Che cos'è?


E' un progetto finalizzato alla valorizzazione e alla diffusione di una nuova estetica dell’accessorio, da un’idea della curatrice Sonia Patrizia Catena.
Ridefinire cose tramite il design come processo d’innovazione che implica progettazione, ricerca e soluzioni innovative.
Oggi il made in Italy dovrebbe promuovere una forte innovazione, produrre ricerca e stimolare un continuo dibattito culturale e scientifico dove integrare il sapere tangibile e distintivo, la capacità progettuale e manifatturiera e, soprattutto, distributiva e comunicativa.
 Impiegare materiali differenti e ricercare soluzioni alternative permette alla materia di guidare la creazione entrando in un dialogo serrato con il designer e la progettazione.
I materiali presentano energie proprie che grazie all’artista e all’artigiano riescono a esprimersi in una determinata polifonia e in un preciso pattern ritmico. I materiali co-agiscono fra loro, sono memoria del gesto che li ha formati, strutturati, elaborati, con il fine di sviluppare un racconto comune, un discorso identitario che rappresenti l’individuo.
Come diceva Bachelard “ogni materia immaginata, ogni materia meditata, è immediatamente l’immagine di un’intimità”, una sorta di comunicazione del proprio io, del proprio know how, laddove ogni oggetto reca in sé le tracce del suo creatore.

Questo è il progetto con il quale ho partecipato al bando di selezione,  è stato realizzato con fondi in alluminio


Sarà in mostra dal 19 aprile al 15 maggio, assieme agli altri progetti selezionati.


                                                                                           In mostra:
Anna Argentino, Antonella Fenili, Antonella Soria Mimmo Castello &Flavio Risi, Cristina Ricci Curbastro, Daniela Poduti Riganelli, Divertissement by Agnese Del Gamba, Elena De Paoli, Estrodiverso, Giovanna Monguzzi, Maracanta, Nicoletta Dal Vera, Paola Zorzi, Sandra Faggiano, Sogni d'arte, Tania Fabbri - Elek  

                                                      Dal 19 aprile al 15 maggio
Inaugurazione domenica 19 aprile, ore 17.30

Circuiti Dinamici
via Giovanola, 21 Milano
MM2 Abbiategrasso



venerdì 20 marzo 2015

Ma i bambini sognano ancora davanti alle vetrine?


Questa è una foto vintage che mi ha colpita: per un attimo mi sono ritrovata nei panni della bambina che guarda le bambole esposte nella vetrina del negozio.
Una foto che mi ha riportato indietro nel tempo, quando da bambina mi fermavo ad ammirare i giochi esposti nelle vetrine, sognando di poterli toccare. 
E mi sono chiesta se i bambini di oggi sognano ancora davanti alle vetrine. 
Molto è cambiato da quando ero bambina: la società, i sistemi di vendita, i giochi stessi.......e credo anche i bambini!
Anzitutto i negozi sono diminuiti (e conseguentemente anche le vetrine) in maniera inversamente proporzionale alla crescita dei grandi centri commerciali: è arrivata la massificazione del giocattolo, non esiste più il negozio che aveva quella cosa particolare, e magari la trovavi solo in QUEL negozio. 
C'è una bella differenza tra l'ammirare le cose esposte in vetrina e percorrere i corridoi strabordanti di merce nei centri commerciali: tra il bambino che osservava gli oggetti dentro la vetrina e gli oggetti stessi c'era una barriera fisica, il vetro appunto. 



Questo faceva sì che ciò che era visibile al di là del vetro non si potesse toccare, e trasformava la vetrina in un mondo magico, vedere e non poter toccare ingigantiva il desiderio di avere quell'oggetto tutto per noi. Ma questo significava entrare nel negozio, chiedere di vedere (e solo vedere....il toccare con mano era ancora di là da venire!)  e il varcare la soglia del negozio diventava già una dimostrazione dell'interesse all'acquisto. Con il benestare della mamma, ovviamente, che non era poi così disponibile all'idea dell'acquisto!


Oggi nelle corsie dei centri commerciali, invece, abbiamo tutto a portata di mano, si vede, si prende, si tocca, a volta si gioca anche mentre i genitori si dedicano agli acquisti.


 Tutto questo credo abbia portato alla svalutazione dell'oggetto, non è più quella cosa che si sognava di poter avere finalmente tra le mani e che, a volte, si riusciva ad avere dopo mesi di suppliche e di nasi incollati alla vetrina. Nel momento stesso in cui  l'oggetto del desiderio arrivava nelle nostre mani veniva trattato come una cosa preziosa, si conviveva con la paura di sciuparlo o rovinarlo e si cercava di averne la maggior cura possibile.


A volte invece non era possibile averlo. E in questi frangenti l'oggetto del desiderio acquisiva ancora maggior valore, diventava un qualcosa di tanto desiderato, ma irraggiungibile.

Non so se sono più felici i bambini di oggi, che hanno tutto a portata di mano, e molto più di ciò che hanno avuto i bambini della mia generazione: quello di cui sono certa è che hanno molti sogni in meno!

Voi che ne pensate?

domenica 1 marzo 2015

Qualcosa di me

In tutti questi anni non ho mai raccontato nulla di me, non amo parlare di me stessa se non in ambito creativo.  L'articolo scritto da Marta Abbà, giornalista, su Omnimilano startup riempie parzialmente questa lacuna: partendo da una collezione che sto portando avanti da tempo (e di cui vi racconterò più avanti) racconta anche qualcosa di me, del mio percorso e delle mie follie (o deliri?) creative. 
Ho incontrato Marta ad un evento a cui partecipavo come espositore  e, chiedendomi informazioni sulla collezione, mi ha raccontato di essere rimasta colpita da tutti quei volti dipinti: da lì è nato l'articolo.
Qui sul blog mi firmo come Marshall, uno pseudonimo che avevo scelto quando ho aperto il blog, e qualcuno si sarà chiesto il perchè di questa scelta. All'epoca scelsi uno pseudonimo che mi rappresentava: amo la musica, in particolare quella rock - blues, e Marshall è una nota marca di amplificatori acustici per chitarra e basso elettrico, quelli che nei concerti sparano la musica a mille, che danno una scarica di adrenalina.
Ecco spiegato il perchè di Marshall.
Se vi va di leggere qualcosa su di me andate a questo link e ci troverete l'articolo di Marta che racconta............un po' di me. E se avete voglia di seguirmi venite a trovarmi su questa pagina e, se vi garba, cliccate Mi piace per seguire gli aggiornamenti

                                             

 

Alla prossima!